Pillole di SpiritualiTà
Per le ferite d’amore non c’è medicina se non da parte di colui che ha causato la ferita. (San Giovanni della Croce)
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di Fr. Alberto Guerrera icms
Qualche anno fa, parlando con dei ragazzi con i quali avevo intrapreso un percorso di discernimento vocazionale nella mia diocesi, mi ritrovai a discutere delle cose ultime: cosa ci aspetta dopo la morte? Una risposta di uno dei ragazzi, che all’epoca dovrebbe aver avuto sui 26-27 anni, mi fece riflettere. “Quello che c’è dopo la morte non mi interessa: ho deciso che ci penserò solo nel momento del trapasso.”
I maestri cristiani di tutti i tempi avrebbero da ridire: è, invece, cosa buona e santa meditare le realtà ultime, la morte per ben prepararvisi, l'inferno per non andarvi, il paradiso per aumentare il desiderio della patria eterna. Ma per meditare su queste realtà ultime, bisogna prima conoscerle, cosa non scontata di questi tempi. Oggi, infatti, la maggior parte dei fedeli non conosce le verità più basilari della dottrina cristiana. Le realtà ultime, chiamate anche novissimi, sono pressoché sconosciute, spesso anche ai cattolici più praticanti.
Sono abbastanza sicuro che se ad un giovane appena uscito da catechismo chiedessi: “che cosa sono i novissimi?”, avrei come risposta due occhi sgranati ed un’espressione di confusione e smarrimento. Ma allora che cosa sono? Il termine deriva dal latino novissĭma, "cose ultime", ed indica le realtà alle quali l’uomo va incontro alla fine della vita. I novissimi sono 4: morte, giudizio, inferno e paradiso.
MORTE
È la realtà ultima a cui tutti credono, perché l'unica conoscibile attraverso i sensi.
Oggi si tende a banalizzarla, oppure a non nominarla nel tentativo di “dimenticarla”: il perché è facile da intuire, essa ci fa paura.
È vero che il concetto della morte porta sempre con sé un certo timore: in fondo morire è pur sempre un male, il prodotto del peccato originale dei nostri progenitori. Quello che un cristiano non dovrebbe mai fare è lasciarsi sopraffare dalla paura e dalla disperazione, spesso figlie di un modo di pensare secolarizzato, ateo, che ha smarrito la fede.
Lo stesso pensiero che, per esorcizzare questa paura ancestrale, fece dire al filosofo edonista Epicuro che “la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi.” Epicuro, da buon materialista, non credeva nella immortalità dell’anima, che secondo lui “moriva” insieme al corpo. Ma se la morte è la fine di tutto, allora la morte perde di importanza e, con essa, anche la vita.
La morte, invece, è una cosa seria, serissima, esattamente come tutta la nostra esistenza. Ogni istante della nostra vita, infatti, ha un valore infinito, e molto di più l'ultimo istante, il quale finisce per riassumerli tutti. In fondo lo preghiamo pure nell'Ave Maria, quando diciamo alla santa Madre di Dio di pregare per noi peccatori "ora e nell'ora della nostra morte". È lì in quel momento che si decide la partita della nostra anima, anche se è importante essersi preparati bene.
In questo dobbiamo farci aiutare dalla morte di Colui che non doveva morire, e che morì solo per amore di coloro che erano nella morte: è nell'accettazione della morte e nel morire bene che noi possiamo imitare ed amare Gesù. Allora potremo anche noi, insieme a san Francesco, parlare di "sorella morte corporale".
GIUDIZIO
Uno dei meno conosciuti e che sembrano più scontrarsi con il nostro sentire, è il giudizio. Esso è una verità di fede: Dio è Padre, è misericordioso, ma è anche giudice.
Eppure, il giudizio a noi non va proprio giù... Ricordo un episodio di una serie tv: il protagonista, un medico, teneva una lezione a dei tirocinanti. Al momento delle domande, un giovane chiede al protagonista perché egli non creda ad una vita dopo la morte: la risposta fu "non ci credo, perché non mi piace l'idea che questa vita sia una prova e che io sarò giudicato". È un pensiero molto comune, influenzato anche dall'idea comune di giudizio che abbiamo e che finiamo per attribuire di riflesso a Dio.
Il giudizio di Dio, ovvero il giudizio particolare (che sosterrà l’anima subito dopo la morte) e quello universale (alla fine dei tempi), nulla ha a che fare con la giustizia umana.
Il giudizio in questione, infatti, non è qualcosa di esterno, dovuto alla violazione di una norma di comportamento. Esso riguarda l'intimo del cuore dell'uomo, creato per Dio. Se questo cuore accoglie Dio nella propria vita e si affida a Lui non ha nulla da temere, ma se lo rinnega allora ha già firmato la sua condanna.
No, non è una visione preconciliare, oggi non siamo in una Chiesa 2.0, e chi non ci crede legga quanto scrive san Paolo VI nella sua Professio Fidei del 1970: "coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, andranno alla vita eterna; e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il rifiuto".
Subito dopo il giudizio particolare, inoltre, le anime salve ma ancora con delle colpe da espiare passano per qualche tempo nel Purgatorio (sono salve "come attraverso il fuoco" afferma s. Paolo in 2Cor 3,12-15), altra verità di fede spesso dimenticata al giorno d'oggi (basti assistere ad un qualunque funerale: sono già tutti santi!?), il che fa tanto male alle anime purganti che di preghiere e suffragi (e di persone che credono ad essi) avrebbero estremamente bisogno.
È proprio l'anima che, trovatasi di fronte all'Altissimo, capisce di doversi purificare da ogni piccola macchia; essa non subisce passivamente la punizione, ma l'accetta e la desidera per arrivare all'amore perfetto: quell'amore che, in questa vita, hanno raggiunto solo i santi.
INFERNO E PARADISO
Ci troviamo adesso a dover parlare delle due realtà definitive. Alla fine dei tempi la morte sarà sconfitta e vi sarà il giudizio finale in cui tutto troverà il suo compimento. A quel punto rimarranno solo due realtà: l'inferno, preparato per satana, i demoni ed i dannati e il paradiso, dove angeli e beati trascorreranno l'eternità ad amare e lodare Dio.
L'inferno è una realtà che è stata spesso combattuta nel corso dei secoli, ed anche oggi si tende a ridimensionarla. "Se anche esistesse sarebbe vuoto", "sì, dai esiste, ma vi è solo satana più qualche angelo ribelle...", oppure esiste ma solo per gente alla Hitler e Stalin (sul georgiano baffuto non sono così sicuro, dovrei chiedere conferma a qualche catto-compagno). Poi diciamocela tutta: ma ce lo vedete Dio, che è misericordia infinita, che condanna un peccatore a dei tormenti che non avranno mai fine? Eppure...
Eppure, la Scrittura è piena di riferimenti alla dannazione eterna, molti dei quali si riferiscono a parole di Nostro Signore in persona.
L'inferno esiste, con buona pace degli scettici, ed è terribile come mostrò ai pastorelli la Madonna di Fatima durante l’apparizione del 13 luglio 1917.
Vi finiscono i peccatori morti impenitenti, coloro che pur potendo salvarsi hanno preferito non farlo. Prendendo come spunto la frase del beato Carlo Acutis, "non io, ma Dio", l'anima dannata è morta avendo nel cuore l'espressione opposta, "non Dio, ma io".
Anche per l'inferno l'errore da non fare è averne una visione "estrinseca", ovvero vederci una condanna per aver trasgredito delle norme, come una vendetta di un Dio giudice inesorabile, che alla minima mancanza finisce per fulminare il povero peccatore. Un Dio più simile allo Zeus dell'Olimpo greco che al Padre Misericordioso rivelato da Gesù Cristo.
L'inferno, invece, ha relazione strettissima, una connessione intima con il peccato, tanto che potremmo affermare che l'inferno sia il peccato stesso. È quello stesso peccato, dal quale l'anima non ha voluto staccarsi e che ha preferito all'amore di Dio, il suo inferno.
Dio non può perdonare colui che non vuole essere perdonato. Perdono di significato tutte le obiezioni contro l'eternità delle pene dell'inferno: con la morte l'anima non può più cambiare, non può più convertirsi, quindi se muore rifiutando Dio, il suo rifiuto diventa eterno. Per questo la Madonna a Fatima ci invita a pregare molto per i peccatori, affinché aprano il cuore alla misericordia divina finché sono in tempo.
L'inferno è il fallimento di un'anima, della sua libertà. Dio non si oppone mai alla libertà dell'uomo ma fa tutto per strappare più anime possibili dai lacci della morte e del demonio. Egli ha mandato Suo Figlio, il Suo Unigenito a dare la vita affinché noi avessimo la vita. Questa vita è la vita della grazia, che avrà la sua pienezza ed il suo compimento solo in Cielo, nel Paradiso. Parlare del Paradiso è quanto di più difficile si possa fare: siamo spesso sommersi da tanto male, anche a causa della morbosità dei mezzi comunicazione (si sa, il male - omicidi, abusi, scandali - fa vendere), che ci è molto più facile parlare dell'inferno...
Molti, specialmente credenti di sette e di altre religioni, finiscono per farsi un’idea di Paradiso molto mondana: una sorta di vita terrena più perfetta, senza sofferenza e dolore.
“Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’,” affermava s. Giovanni Paolo II, “giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. (…) sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. È l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo”.
Il Paradiso consiste nel possesso di Dio e delle sue meraviglie, per mezzo delle quali lo ameremo e lo ringrazieremo sempre di più, arrivando ad amare tutto in Dio: gli altri, così, non ci saranno più indifferenti, come potrebbero esserlo in questa vita terrena, ma li ameremo in pienezza, come noi stessi, della stessa intensità di amore con cui li ama Cristo.
Così hanno fatto i santi, i quali hanno cominciato già in questa terra ad amare come ama Dio, come per esempio i santi pastorelli, trasformati totalmente dall’amore trinitario da divenire copie perfette di Nostro Signore.
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III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO - 26 gennaio 2025 - ANNO C -
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È VERAMENTE L'AMORE CHE FA GIRARE IL MONDO!
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"SON VENUTA A CHIEDERVI DI VENIRE QUI IL GIORNO 13, A QUESTA STESSA ORA"
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Per le ferite d’amore non c’è medicina se non da parte di colui che ha causato la ferita. (San Giovanni della Croce)