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Incontrare Gesù non sempre è una scelta consapevole

Essere cirenei sotto il Patibulum, con Lui

 

di Natalia Mancini

Sto scrivendo queste righe il giorno della Domenica delle Palme. Oggi Gesù entra a Gerusalemme, tra l’acclamazione della folla festosa; ma, avendo ascoltato il racconto della Passione del Signore, durante la liturgia, non posso fare a meno di pensare che in realtà quel giubilo non è altro che il preludio alla Settimana Santa, che inevitabilmente culminerà nella crocifissione.

Quella stessa folla, che oggi inneggia al Figlio di David, sceglierà Barabba e manderà Gesù al Calvario, dopo un processo sommario e una condanna ingiusta, decisa dal Sinedrio secondo le leggi giudaiche e applicata da Pilato secondo le leggi romane.

Gesù, figlio di Dio, che viene abbandonato dai suoi uomini e mandato a morte da altri uomini e dalle loro leggi.

E allora penso che anch’io, a volte, sono una di loro. Quante volte anch’io sono stata un discepolo che abbandona Gesù; quante volte sono stata in quella folla delirante e, potendo scegliere, ho salvato Barabba; quante volte sono stata un Pilato ignavo, che per assecondare il Sinedrio, la folla e soprattutto il suo quieto vivere, ha demandato la decisione ad altri, facendo un passo indietro rispetto alle proprie responsabilità e alla propria coscienza.

Ma, andando avanti nel racconto della Via Crucis, c’è un personaggio che mi fa riflettere: un uomo di Cirene, uno straniero che viveva a Gerusalemme, che tornava dai campi, dove si era recato la sera prima o forse la mattina presto a lavorare.

Quest’uomo, mentre attraversa la città, si ferma a guardare il corteo dei tre mandati a morte, incamminati verso il Golgota.

I soldati lo chiamano e gli ordinano di portare la croce di Gesù.

Sappiamo già che Simone di Cirene è diventato, nel tempo, il simbolo di chi non volta la faccia, di chi non si tira indietro, di chi non fa finta di niente, ma sostiene il cammino faticoso, i passaggi pericolosi, le sofferenze più acute, al punto che l’aggettivo di provenienza ha trovato un significato proprio nel sostantivo “cireneo”, di uso comune nella nostra lingua, per indicare chi aiuta qualcuno in un lavoro faticoso; chi si addossa le fatiche altrui e condivide la sofferenza, nell’intento di portare sollievo.

Eppure, quello che mi colpisce è un altro aspetto, un punto di vista che solo oggi ho messo a fuoco realmente, ascoltando il passo del Vangelo di Matteo: “Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce”.

Il cireneo non si offre di aiutare, non lo fa né per compassione né per generosità, e sicuramente era già stanco del lavoro nei campi. Gli viene comandato da un’autorità, quella dei soldati di Cesare: e non perché quelli hanno pietà di Gesù, che era caduto già diverse volte sotto il peso della croce, ma perché non ci fosse il rischio che il condannato non arrivasse vivo al luogo della crocifissione, dove quella condanna, pronunciata qualche ora prima dal prefetto, doveva essere eseguita.

Al cireneo viene quindi ordinato di portare la croce, per garantire che Gesù sia crocifisso. E Gesù deve essere crocifisso, non solo per la legge degli uomini che lo ha condannato, ma per disegno divino, affinché egli salvi con la sua morte il popolo di Dio dal peccato. 

Questo mi ha fatto considerare, anche sulla base di esperienze personali o di storie raccontatemi da altri, che ci si può accostare a Gesù in tanti modi, anche per motivi esterni alla propria volontà e al proprio “controllo”: un evento quale la Comunione o la Cresima di un figlio; un lutto, una cerimonia o una celebrazione solenne; un momento di difficoltà, una malattia, oppure su insistenza di un familiare o di un amico. Magari, fino a quel punto eravamo stati dei cattolici tiepidi o distratti o addirittura atei o agnostici, del tutto disinteressati; ma poi ci siamo fermati, ci siamo avvicinati, e allora tutto è cambiato.

Nell’iconografia classica si suole rappresentare sulle spalle di Gesù l’intera croce con i suoi due assi, ma noi sappiamo che in realtà i condannati recavano solo il “patibulum”, ovvero l’asse orizzontale, che veniva poi issato su quello verticale, già presente nel luogo della crocifissione.

C’è un quadro di un pittore cattolico contemporaneo, Sleger Koder, che raffigura Gesù e il Cireneo insieme, sotto il peso del patibulum, nella salita verso la collina del Golgota. Gesù e Simone sono rappresentati fianco a fianco, i corpi allacciati che si sostengono a vicenda, le spalle accostate in un’unica linea parallela alla trave, le guance vicine.

I volti quasi si somigliano e gli sguardi sono rivolti nella stessa direzione, l’insieme delle figure a formare un unico blocco e l’intreccio delle mani tra la trave e il compagno ci restituiscono un’idea di vincolo e armonia.

In questa immagine, davvero emblematica e densa di significato, c’è per me tutta la forza del messaggio secondo il quale Simone, accettando di aiutare Gesù, si mette dalla sua parte e cammina accanto a lui.

Simone aiuta, ma capisce che nell’aiutare quell’uomo sta ricevendo più di quello che dà, perché prendere la croce di Gesù è anche condividere la propria, con il peso che ciascuno di noi porta ogni giorno sulle proprie spalle, è sentire la sofferenza ma rafforzare la fede, nella fatica della salita, nella preghiera, nella comunione e nella compassione, intesa nel senso originale del termine.

Oggi, per la celebrazione della Domenica delle Palme, la chiesa era affollatissima, tanto che, non solo il parcheggio interno, ma anche la strada esterna era intasata dal traffico delle macchine che si alternavano per assistere alle due messe del mattino.

Mentre riflettevo su tutto quello che poi avrei scritto una volta tornata a casa, guardando quella folla, ho tanto sperato che per molti quella di oggi potesse essere una delle occasioni per fermarsi e avvicinarsi a Gesù, per farlo entrare nella propria vita e camminargli vicino, come un cireneo.

 

 

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