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INSEGNARE

“Non può darsi adeguata e perfetta educazione all’infuori dell’educazione cristiana”

di Marco Lepore

Metà settembre, si torna a scuola. O, meglio, vi tornano gli studenti, poiché per il personale che vi lavora – dirigenti, insegnanti, amministrativi e collaboratori – la scuola non chiude mai (se non nei festivi) e l’aumento vertiginoso delle incombenze, unitamente alla asfissiante burocrazia che l’accompagna, fanno sì che le vacanze estive ormai coincidano semplicemente con le ferie, come per ogni altro comparto lavorativo.

Prima del varo della legge n. 517 del 4 agosto 1977, la data di inizio di tutte le scuole era, in Italia, il primo ottobre, quando l’estate era ormai sfumata e non poteva sorgere il rimpianto di trascorrere le belle giornate estive dentro bollenti aule scolastiche. I bambini di prima elementare (oggi scuola primaria), per questo motivo erano detti "remigini", poiché in questo giorno viene celebrato San Remigio, le cui reliquie furono traslate da Lucca a Fosdinovo proprio il 1º ottobre dell’anno 1701. Poi si decise che occorreva insegnare e, possibilmente, imparare di più, per far fronte all’accresciuta complessità del vivere sociale e, soprattutto, perché – dicono gli economisti – ogni giorno in più o un meno di scuola incide sul PIL del Paese. Così furono fissati i nuovi calendari scolastici, che non possono scendere sotto i 200 giorni di lezione annui; fu anticipato l’inizio delle lezioni a settembre (in date decise anno per anno dalle singole Regioni) e furono abolite alcune festività religiose infrasettimanali. Da allora non fu più possibile chiamare “remigini” i nuovi alunni di prima elementare, mettendo “finalmente” nel baule delle cose obsolete questa tradizione, tanto legata a un mondo (cristiano) ormai in via di estinzione…

Tralasciando ogni possibile discussione sulla verità effettiva a riguardo della relazione fra giorni di scuola e PIL, quanto fu stabilito nel 1977 segna la data di una profonda mutazione culturale ormai avvenuta, che andava a collocare la scuola e l’insegnamento (e anche l’educazione, cui l’insegnamento deve essere intimamente legato) all’interno di un orizzonte prevalentemente produttivo ed economicistico, recidendone definitivamente le radici. La parola “scuola”, infatti, deriva da "Scholè" (σχολή), termine greco che originariamente significava "tempo libero", "ozio", o "luogo dove si trascorre il tempo libero", e si riferiva al tempo dedicato a attività piacevoli, allo studio, alla riflessione, o alla filosofia, piuttosto che al lavoro o agli obblighi.

Certo, la scuola non era più così già da prima, però sussisteva ancora, almeno nelle intenzioni e nell’immagine condivisa socialmente, l’idea di una formazione culturale utile alla crescita e maturazione della persona tout court, rendendo ragione così anche dell’intimo rapporto tra istruzione ed educazione, e per questo il legame con gli esiti in campo lavorativo era decisamente più blando, meno pressante anche per gli studenti. Oggi, invece, pare diventato questo il core business del sistema nazionale di istruzione, tanto che sono messe a tema esplicitamente, anche all’interno dei programmi di studio, le competenze (skills) che occorrono per un inserimento efficace e fruttuoso nel sistema economico-produttivo, sia che si tratti di attività tecniche-operative, sia che si tratti di figure destinate ad incarichi intellettuali di alto profilo. L’educazione della persona, da parte sua, si è frantumata in una molteplicità di educazioni particolari (alla salute, all’inclusione, alle pari opportunità, finanziaria, sessuale, all’affettività, all’accoglienza, al rispetto, e chi più ne ha più ne metta…), trasformandosi sostanzialmente in una sorta di “addestramento”.

Questa lunga premessa vuole essere funzionale a far comprendere come si sia modificata nel tempo l’immagine e la funzione della scuola e, con essa, inevitabilmente, anche dell’insegnamento, nelle sue modalità, finalità e contenuti. Può essere utile, allora, ricordare cosa significa in realtà insegnare (e perché il vero insegnamento è così intimamente connesso all’educazione) e per farlo è di grande aiuto tornare al significato originario della parola. La sua etimologia in latino tardo è infatti insignare, che vuol dire ‘incidere, imprimere dei segni’ (sottinteso, nella mente), composto da in- e signare. Colui che insegna, quindi, non è chiamato a travasare dei contenuti da un recipiente all’altro, né a dare semplicemente risposte preconfezionate, ma innanzitutto a far riconoscere i segni che permettono al discente di fare un percorso di ricerca e di conoscenza. Occorre dunque intercettare il cuore dei giovani che si hanno dinanzi, destando il loro intimo desiderio di verità. Senza questa precondizione, non può esserci un vero cammino di apprendimento e di crescita.

È un compito terribilmente delicato e importante, in definitiva una vera e propria missione, poiché è il terreno su cui si gioca il futuro di una società. In un’epoca segnata dalla crisi della scuola, dalla sfiducia verso le istituzioni formative e dall’invadenza della tecnologia, occorrerebbe davvero che gli insegnanti tornassero e ricoprire quel ruolo di “maestri” di cui c’è urgente bisogno. Ricordiamo che La parola "maestro" deriva dal latino magister, che a sua volta viene dal latino magis, col significato di "di più" o "molto", con l'aggiunta del suffisso comparativo -ter. Quindi, "maestro" può essere inteso come "colui che è di più", "il più grande", ovvero il più esperto e competente sì in una materia, ma soprattutto in “umanità”. Insomma, un ruolo centrale: non burocrate del sapere o, peggio ancora, addestratore di ingranaggi del sistema economico, ma testimone di cultura, libertà, passione, ricerca della verità.

La parola del vero maestro illumina il sapere, lo rende accessibile, lo trasforma in qualcosa di vivo e desiderabile. Non è la chiarezza arida delle spiegazioni tecniche, ma quella scintilla che nasce dalla passione e che fa amare una materia, un libro, un concetto, e che suscita il gusto della scoperta.

L’insegnante dovrebbe anche essere colui che spinge chi apprende a reinventare ciò che ha imparato. Il sapere (così è anche per la fede) non è completo, infatti, finché non diventa esperienza incarnata: è nel confronto con il reale che lo studente smette di essere un semplice contenitore di nozioni e diventa soggetto del proprio sapere, facendone una “bussola” personale.

Del resto, questo è anche il metodo di Dio, che è il più grande educatore che esista, e Gesù è il vero Maestro! E qui entra in gioco l’enorme importanza e responsabilità – soprattutto oggi – in particolare dell’insegnante cristiano, che ha il compito non solo di presentare la propria materia all’interno di questo orizzonte gnoseologico, ma è chiamato anche ad essere lui stesso “segno” della presenza di Qualcuno di più grande, che dà consistenza e senso alla sua persona e alla sua vita.

Un in-segnante cristiano che sia egli stesso segno, infatti, diventa capace – poiché utile strumento che si lascia adoperare dalla mani di un Altro – di guardare e trattare con più umanità i propri alunni, e di introdurli (attraverso la scoperta e la conoscenza di un aspetto particolare della realtà: la sua materia) alla ricerca del senso e della verità delle cose, facendo diventare la scuola un vero luogo di crescita umana e culturale.

Del resto, se la scuola non diventa essa stessa uno strumento per camminare sulla via della Verità, e dunque anche della salvezza dell’anima, fallisce il proprio compito, e oggi, purtroppo, dobbiamo ammettere che la nostra scuola statale è assai lontana dalla impostazione sin qui descritta. Proprio per questo è così importante la sopravvivenza delle scuole cattoliche: come scriveva infatti Papa Pio XI nella sua enciclica Divini Illius Magistri (p.2), “non può darsi adeguata e perfetta educazione all’infuori dell’educazione cristiana”.

Certo, l’insegnante cristiano è chiamato a essere testimone ovunque si trovi a operare, ma in una scuola che ha una identità cristiana è senz’altro più favorita quella collaborazione con i colleghi e con tutta la comunità educante (in primis i genitori)  che è indispensabile per favorire la crescita intellettuale, umana e anche spirituale, di persone desiderose di contribuire al bene comune, la cui massima espressione non è tanto (benché auspicabile) una società civile ordinata e prospera, ma è una società fondata sulla Carità e sull’Amore.

In questi tempi bui caratterizzati da relativismo, apostasia, indifferentismo religioso, sembra un compito impari, ma con l’aiuto di Dio – che va chiesto in ogni momento – tutto è possibile.

 

 

 

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