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L’ÀNCORA del cuore

La speranza cristiana

di Suor M. Leonarda Innocente

“Speriamo bene…”: chissà quante volte abbiamo sentito questa espressione, soprattutto in questo tempo di pandemia!

L’uomo è naturalmente portato a sperare, proteso verso una crescita, un miglioramento, uno sviluppo futuro. Ma la speranza teologale, sulla quale oggi vogliamo soffermarci, è qualcosa in più. Non consiste semplicemente nel desiderare “un bene” (una condizione favorevole, un buon risultato, una giornata di sole, la salute…), ma il Bene.

La speranza è un desiderio ardente di fare comunione con Dio, di essere uno con Lui. La grande speranza è questa: sapere di essere definitivamente amato/a e sapere che, qualunque cosa accada, io sono atteso/a da questo Amore e lo voglio raggiungere; e così la mia vita è buona (cfr. Spe Salvi, 3). Per questo, la speranza è una virtù teologale: poiché mette l’uomo direttamente in rapporto con Dio come fine (punto di arrivo) e, già fin d’ora, lo collega direttamente con Dio stesso, quale motivo della speranza.

Bella la parabola raccontata da Gesù nel Vangelo: “Il Regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto… il Regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose…” (Mt 13,44-46). Il Regno dei cieli, dunque, è simile a una cosa preziosa nascosta, a “una luce sepolta”, come la brace sotto la cenere; ed è simile a qualcuno che desidera trovare questa cosa preziosa e la cerca. Non è simile a colui che trova, ma a colui che cerca. Non assomiglia ad un appagamento, ad una soddisfazione, ma ad un desiderio di pienezza attivo, laborioso, che mette in movimento. La speranza è tensione verso una meta, che in parte già conosciamo, senza possederla ancora. Sant’Agostino dice: “non ti cercherei se non ti avessi già trovato”: cioè, non cercheremmo Dio, non vorremmo incontrarlo se non Lo avessimo già “assaggiato”, se non ne avessimo già fatto esperienza.

Simbolo della speranza è l’ancora: questa si getta in mare per dare stabilità alla nave. La speranza è l’ancora del cuore gettata sino al trono di Dio, un’ancora gettata nella luce, che ci permette di attraversare anche le tenebre più fitte. Dio cosparge di semi di luce il nostro cammino, semi che germogliano al buio. Il seme deve marcire, per poter dare frutto: così il buio della sofferenza, di quei momenti della nostra vita in cui non comprendiamo ciò che il Signore sta compiendo in noi, non comprendiamo dove ci stia portando, che cosa voglia dirci (Signore, cosa fai, perché mi togli questa cosa, dove sei?), sono esattamente “la morte” del seme. Sono momenti di grazia, nei quali si affaccia in noi qualcosa di nuovo, nei quali il Signore compie in noi meraviglie, ci fa “lievitare”, ci trasforma dal di dentro. “La Resurrezione inizia sempre con il germogliare, cioè con l’esperienza del marcire, del disfarsi di qualcosa. Morire a noi stessi significa germogliare, non semplicemente venir meno” (Epicoco). Significa far spazio in noi alla luce che il Signore vuole far sorgere, vuole accendere. Questa luce, come una fiaccola accesa un giorno in noi da Dio, è capace di illuminare il nostro presente e il nostro futuro. È compito nostro tenere viva questa fiamma dentro di noi, nella memoria della fede, perché la libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene (Spe Salvi, 24).

 “La speranza, come attesa del bene, è strettamente imparentata con la fiducia, ed è un’attesa anelante, nella quale si può rilevare tanto l’attesa perseverante quanto la ricerca di un rifugio”. (Bultmann)

Colui che spera si appoggia in Dio, non confida propriamente sulle proprie opere, ma su Dio che opera in lui; e non confiderà mai troppo in questo Dio infinitamente onnipotente, buono e fedele nelle sue promesse. Rm 5,5 “La speranza, poi, non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Al contrario, si diventa poveri quando si vuol fare tutto con le proprie forze e non si può più accettare nulla in dono. Proprio i valori più alti e beatificanti non possono essere prodotti, ma vanno semplicemente accolti con gratitudine. Questo lavoro presuppone il silenzio, l’umile ascolto e la preghiera.

Ma, in particolare, la speranza chiede pazienza perché, mentre il male colpisce alle spalle, ferisce all’improvviso e s’imprime con forza nella memoria del cuore e del corpo, il bene invece matura lentamente, nel buio e nel silenzio e chiede di essere scelto, mette in gioco la nostra libertà. Se s’imponesse, invece, sarebbe una forzatura, non sarebbe il Bene, non sarebbe l’Amore, ma una prigione. Noi preferiremmo estirparlo alla radice, questo male, come i servi nella parabola del grano e della zizzania (Mt 13,24-30), che si meravigliano che ci sia della zizzania dove il Padrone ha seminato grano buono e chiedono: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”, ma il Padrone non vuole perché, levando il male, il bene potrebbe essere danneggiato: è meglio che crescano insieme...  

Epicoco, parlando della pazienza, porta l’esempio di Giuseppe, venduto dai fratelli. “Che cosa insegna Giuseppe? Che con pazienza, a volte, dobbiamo caricarci della Croce che ci viene messa davanti, soprattutto nei momenti in cui non capiamo questa Croce. Dobbiamo, come Giuseppe, fare questo ragionamento: «Se esiste questa realtà, questa Croce che mi sta innanzi, allora Dio ha un progetto su di essa, su questa sofferenza. Dio sta puntando a un bene, che non è semplicemente un bene per me, ma è un bene per tutti, a partire da me. E se io indietreggio davanti a questa Croce, a questo buio, non soltanto priverò me di questa luce, ma un intero popolo». Dalla mia pazienza davanti alla Croce, dal mio restare nel buio con Speranza, dipende il destino di un intero popolo.” Restare con pace in attesa della luce nuova ci permette di affrontare con maggiore lucidità le difficoltà e le sofferenze, altrimenti restiamo aggrovigliati, come un uccellino che, rimasto impigliato nella rete, continua ad agitarsi, non fa altro che peggiorare la sua situazione. Questo non significa staticità, ma chiede un lavoro interiore non indifferente. “Solo il Suo Amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto”. (Spe Salvi, 31)

Fatima è un richiamo a sperare, anche per coloro che non sperano. Richiamo a offrire “il nostro buio” affinché un altro possa essere illuminato. Ci dice Suor Lucia negli Appelli: “Davanti a Dio siamo tutti fanciulli. Egli è il Padre della grande famiglia umana: ci culla tutti sulle braccia della Sua Provvidenza e ci conduce per le vie dell’amore. Che non si voglia deviare da questo cammino, né staccarci dalle Sue braccia paterne! Così la nostra speranza risiede in Dio, nella Sua Parola, nel Suo amore di Padre, nella Sua mano salvatrice. Come figli abbandonati nelle Sue braccia, sicuri della Sua infinita misericordia, sappiamo che la nostra fiducia non sarà delusa”. (Appello alla speranza)

Maria è Madre della speranza, come ha affermato anche recentemente Papa Francesco, aggiungendo questa invocazione anche alle litanie lauretane. Lei sia la nostra maestra in questo cammino, insegnandoci a sperare davvero, come ha fatto Lei.

 

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