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ROSARIO LIVATINO

PROFILO SPIRITUALE E UMANO DI UN MARTIRE DELLA GIUSTIZIA - Sub Tutela Dei (S.T.D.)

di sr. M. Elisabetta Pezzutti icms

«Rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio» (Rosario Livatino)

Rosario Angelo Livatino nacque a Canicattì il 3 ottobre 1952. Il 7 dicembre 1952 divenne figlio di Dio attraverso il Battesimo e il 26 luglio 1964 ricevette il Sacramento della Santa Comunione.

Conseguita la maturità presso il locale liceo classico Ugo Foscolo, dove s’impegnò nell’Azione Cattolica, nel 1971 si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, presso la quale si laureò nel 1975, con il professore Antonio Pagliaro, un giurista italiano, professore emerito di Diritto penale nell’Università di Palermo e socio dell’Accademia dei Lincei di Roma.

Tra il 1977 e il 1978 prestò servizio come “vicedirettore in prova” presso l’Ufficio del Registro di Agrigento. Sempre nel 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per entrare nella Magistratura italiana, venne assegnato presso il Tribunale ordinario di Caltanissetta.

Il 29 ottobre 1988 a 35 anni ricevette il Sacramento della Confermazione.

Il 21 settembre 1990 fu vittima di un agguato lungo la SS 640 Agrigento-Caltanissetta, mentre si recava al lavoro.

 

Ma chi era Rosario Livatino?

«Non un magistrato cristiano, ma un cristiano che faceva il magistrato».

Rifacendosi ad alcuni passi evangelici, Livatino osservava come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali”.

Ancora su questo aspetto, Livatino dichiarava: “Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere ‘giusti’, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”.

Entrato in magistratura nel 1978, per lungo tempo fu Sostituto Procuratore ad Agrigento e in seguito giudice nella stessa città.

Nell’agenda di Livatino, alla data del 18 luglio 1978, è possibile leggere: “Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.

Livatino affermava: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.

Ogni mattina, prima di entrare in tribunale, andava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe.

Vi è un’impronta profonda che evidenzia il percorso della sua vita, una tensione dello Spirito intensa ed una religiosità viva che rappresentano il segno di una vita interiore ricchissima, tanto da conformarne l’intera esperienza umana e professionale. 

Livatino è un uomo che ha dato testimonianza di sé attraverso le opere, ma anche con alcuni scritti.

I diari che il giudice teneva ordinatamente, anno per anno, rappresentano una fonte essenziale per accostarsi alla sua figura. Dopo la morte, vennero affidati dai genitori a Ida Abate, sua insegnante di latino e greco nel liceo di Canicattì.

Sulla pagina iniziale di ciascun volume è riportata la sigla S.T.D., che Livatino annotava per esprimere, Sub tutela Dei, il principio ispiratore di una vita fondata sul messaggio evangelico. Un richiamo forte, che indica il sentimento di protezione di Dio ma anche, e prima ancora, la presenza del suo sguardo su di noi.

La spiritualità di Rosario Livatino non era basata solo sulla fede ma anche sulla ragione e i diari ne offrono un ritratto chiaro. Una delle frasi più celebri, annotate da Livatino «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili», riflette la tensione morale che egli ha vissuto: una sintesi di “essere” e “agire”, la proiezione di un uomo fortemente presente nel mondo.

Ma la sua spiritualità è stata anche tormentata. Tra il 1984 e il 1986, in coincidenza con difficili momenti professionali, Livatino attraversa la fase del deserto e della solitudine, e invoca l’aiuto di Dio: «Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni … Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?». Risuona il grido di abbandono, l’urlo del cristiano di ogni tempo nella fase della desolazione.

Livatino è un uomo riservato e non ostenta la sua fede religiosa. Ha una solida formazione culturale, è cresciuto sui classici della letteratura latina e greca, la comprensione della laicità è ben radicata nel suo agire e nel ruolo di magistrato che riveste. Partendo dalla nota massima evangelica «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio», nello scritto Fede e Diritto dell’aprile 1986 osserva come «l’irrinunciabile primato di Dio nella coscienza dell’uomo non è in contrasto con il potere / giurisdizione della legittima autorità civile di organizzare la vita della polis bisognosa di ordine, legalità e giustizia. Nella dialettica Città di Dio - città dell’uomo, Gerusalemme - Atene, il cristiano obbedisce perciò allo Stato fino a quando questi non si mette contro Dio e la sua legge divina» [nel testo di Sirna, pag. 108].  Il volume di don Pio Sirna dedica ampio spazio a come la Chiesa ha affrontato nel tempo il fenomeno della mafia. 

Di Livatino ebbe a dire Giovanni Paolo II che fu «martire della Giustizia e indirettamente della Fede». La sua morte è, nella prospettiva della Chiesa, non solo un fatto criminale, ma un atto in radicale contrasto con il messaggio e i precetti evangelici. Un atto in odium fidei, compiuto nei confronti di chi si è spinto al martirio con la propria testimonianza, nella quotidianità del lavoro, nella esperienza di uomo, nelle attenzioni di figlio.

Una esistenza fatta di atti che non hanno nulla di eroico, ma sono il frutto di scelte responsabili, portate avanti nel tempo con costanza e dedizione.

 

 

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